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Le storie delle mosaiciste: Jessica

  • Immagine del redattore: Andreina
    Andreina
  • 3 giu 2017
  • Tempo di lettura: 8 min

Aggiornamento: 3 set 2020


Jessica è questo il nome che ha scelto per raccontare la sua storia. Jessica è una delle tante donatrici del mosaico. Si affaccia una mattina con aria sorridente e chiede di poter dare una mano, ha saputo da altri che è semplice partecipare ed entrare a far parte di questa famiglia, fatta di gente generosa e volenterosa.

Si rivolge a me chiedendomi cosa doveva fare, in quel momento io stavo tagliando del vetro. Lei si accomoda e iniziamo a conversare, dopo un paio di ore eravamo diventate amiche. Prima di andare via mi promette di tornare e da allora è iniziato il nostro viaggio insieme. Come ho già scritto, il mosaico umano che stiamo costruendo è intriso di gioia e dolore delle persone che vengono ad aiutarmi, ognuno di loro porta leggerezza o carichi da novanta, di cui sente la necessità di alleggerirsi. Questa è forse la più grande fatica di quest’opera colossale e raccontare queste storie mi offre la possibilità di alleggerire me stessa da questo grande fardello, da cui ho imparato a proteggermi, anche se non completamente, perché travolgente emotivamente.


Dopo mesi Jessica mi confida piangendo di voler raccontare la sua storia, una storia che sarebbe servita a molti per capire oppure rassegnarsi agli eventi di una violazione indiscutibilmente non coerente con una visione etica, morale e umana. Per me sono stati momenti difficili dove ho ringraziato il cielo e la mia famiglia per avermi dato la luce di una vita serena e di avermi fatto crescere nel momento e nel posto giusto. Scrivo ricordando le mie e le sue lacrime durante la narrazione di questo passato terribile, devastante nel cuore, nella testa e nell’anima. Dopo averla invitata a casa mia e fatta accomodare inizia dicendomi: “Il Vecchio aveva pieno possesso della nostra psiche. La nostra era una famiglia semplice, composta da tre figli, io di 10 anni, mia sorella di 6 anni, mio fratello 10 anni più grande di me e mia madre consenziente alle angherie del Vecchio, era costretta a lavorare per mantenerci, dal momento che il Vecchio spendeva tutto il suo stipendio da netturbino in alcool”.


Non avevo ancora capito chi fosse il Vecchio, ma il tono di voce e le lacrime mi avevano angosciata. Poi Jessica continua il racconto, come a voler vomitare tutto il veleno che ristagna nonostante fossero passati vent’anni dalla fine e io con la pelle d’oca ascoltavo e pensavo quanto dolore è racchiuso in questa persona. Jessica ancora bambina rientra a casa e il Vecchio si accorge che aveva dello smalto alle unghie e la picchia con il tubo per infiascare il vino, al fratello tira una roncola e sfascia un comò, queste erano le immagini disegnate dalla mia fantasia nel mio cervello. Lei continua: “ Mio fratello se ne è andato all’età di vent’anni, non facendosi più sentire perché inorridito dalle tante violenze perpetrate su di noi e mia madre che fino al momento della separazione non si è accorta degli abusi.”


Era tutto confuso, non capivo. Ma Jessica continua:

“Ero costretta ad alzarmi la mattina alle quattro per andare ad aiutare il Vecchio a ripulire le strade della città e dopo quattro ore di lavoro mi recavo a scuola. Ero brava, ma considerata una bambina taciturna e triste, mai nessuno che mi abbia chiesto cosa avessi. In quinta dopo aver passato l’esame di licenza elementare chiesi in regalo una bicicletta e fui ripagata con botte e la mia prima violenza sessuale, avevo solo 10 anni. Non capivo cosa fosse successo, ma sapevo dentro di me che non era giusto. Giorno dopo giorno ad ogni richiesta di un bicchiere di vino susseguiva una violenza fisica, mentre la mia mamma era al lavoro. Una sera dopo che avevo pulito casa e cucinato il Vecchio chiama la mia sorellina che allora aveva 10 anni e dopo averle spaccato una bottiglia di vetro in testa nella sala della casa nuova le sussurra all’orecchio qualcosa, mia madre sbottò in un pianto e quello che ricordo è che vennero i carabinieri e fummo trasportati in questura dove tutti mi chiedevano e io piangevo.Voleva iniziare anche con lei, avevo cercato di proteggerla, ma il Vecchio voleva anche lei, non bastavo più io. Non ho mai capito se mia madre sapesse cosa mi fosse successo in quegli anni, ma finalmente aveva preso la decisione giusta, ribellarsi alle violenze a cui eravamo stati tutti sottoposti. Il carabiniere continuava a farmi domande e io dopo tanta paura e reticenza iniziai a raccontare nei particolari tutto il male che mi era stato fatto da un padre padrone della nostra anima oramai bruciata nell’inferno. Dopo qualche giorno venni a sapere che mio padre era stato incarcerato, e io separata da mia sorella e mia madre fui portata in un istituto. Da allora la mia vita cambiò, forse in peggio, venivo maltrattata anche lì, non potevo vedere la mia famiglia. Dopo qualche mese mia madre - che vedevo di nascosto da tutti - mi confidò di aver trovato un compagno, che però non mi voleva vedere, perché le dicerie erano tante, apparentemente si diceva che non ero stata violentata da mio padre ma anzi ero io che andavo a letto con lui. Quanto ho odiato il genere umano in quei momenti! Abusata da bambina, violata e privata della serenità e leggerezza dell’adolescenza da un segno indelebile che ha solcato il mio destino e loro, tutti, pensavano che fossi stata io la pietra dello scandalo. Nessuno che avesse pena di una bambina che con le mani conserte e rannicchiata a terra viveva con terrore l’alito puzzolente di alcool o le mani del Vecchio che la toccavano. Quanto ho pianto, quanto ho pregato di morire, quanto mi sono sentita sbagliata e diversa!”.


Io non ce la facevo più ad ascoltare, il mio dolore si era trasformato in una fitta al cuore, i brividi di freddo correvano su e giù lungo il mio corpo, così chiesi a Jessica di interrompere il racconto. Prendemmo un caffè insieme, mangiammo un cioccolatino, e poi riprese il racconto che di nuovo mi riempì la testa. Avrei voluto urlare per l’ingiustizia che aveva subito, ma non sarebbe stato giusto, era lei che soffriva, il mio compito era ascoltarla e rassicurarla per la fiducia che mi aveva concesso raccontandomi tutto. Poi continuò spontaneamente, dicendomi:

“Lo sai Andreina perché ho scelto di chiamarmi Jessica? E’ il nome della bambina morta che ho concepito quando vivevo in istituto e che tutt’oggi ricordo con amore e malinconia. All’età di diciotto anni ho incontrato un uomo sposato che dichiarandomi amore mi ha messo incinta. La prima era una bambina e il secondo - avuto dopo un anno - non lo ha voluto neanche riconoscere il bastardo! Ho amato tanto quella creatura, era la prima cosa bella della mia vita, un esserino che in parte aveva accantonato il dolore della prima bambina facendomi vivere la tenerezza di essere mamma”.


Ho pensato dentro di me, come è stato possibile tutto questo, che razza di uomo è l’uomo che di fronte ad una bambina distrutta dal suo passato di abusi, la circuisce e la rende madre senza averne pena. Jessica avrebbe avuto bisogno di rassicurazioni e protezione da un adulto con un po’ di senno, invece era stata di nuovo violata e abbandonata per l’ennesima volta. Non volevo più continuare ad ascoltare, ma Jessica con rabbia proseguì dicendomi:

“Andreina, sai, mia madre è morta dopo due anni di tumore, mia sorella era ancora in istituto e io non sapevo dove andare con questa creatura piccola e indifesa, quindi ho deciso di tornare alla casa paterna.”


A quelle parole sono rabbrividita, Jessica era così disperata che per salvare la sua creatura era tornata dal vecchio carnefice, tra l’altro uscito da poco dal carcere. In quel momento ho chiesto a Dio come fosse possibile tutto questo, ma ho cercato di far finta di niente, chiedendole di continuare per capire ancora una volta il perché. A quel punto Jessica si alza di scatto e va via salutandomi. Rimango a sedere sbigottita senza fiato né parole per qualche secondo, la inseguo e le consegno un cuore dicendole “Ti auguro buon San Valentino”. Era il mio modo, anche se assurdo per la circostanza, di dirle “TI VOGLIO BENE!” Non avrei voluto questo per te, mi dispiace per quello che ti è successo, vorrei averti risparmiato questo dolore vivendolo io, ma niente di tutto questo sarebbe servito a farla stare bene. Dalla mia bocca non sono usciti i miei pensieri, ho solo saputo dirle che il cuore che le avevo donato era stato creato da Cinzia Venturini, una donatrice dei mosaico, uno dei tanti oggetti da lei realizzati per la raccolta fondi che stava organizzando tra Svizzera e Italia. Mi sono sentita stupida, ho cercato di abbracciarla, ma lei era rigida e fredda come la morte, aveva ricordato troppo. Ci salutammo con la promessa di rivederci presto.


Oggi mentre scrivo e piango, ricordo la notte che seguì il racconto di Jessica, una notte piena di terrore e insonnia dove mille pensieri giravano dentro di me come un vortice. La mattina presto al mio risveglio mando un messaggio vocale a Cinzia Venturini dicendole:

Sappi che per un istante grazie alla tua generosità hai fatto felice una donna, una donna come noi, ma che a differenza di noi ha sofferto tanto. Sentiti orgogliosa della tua generosità, non stai lavorando impegnandoti tanto solo per aiutarci a portare avanti questa opera in mosaico, ma con le tue mani e il tuo pensiero buono hai fatto sentire amata una creatura indifesa davanti agli eventi della vita. Ti voglio bene! Grazie per quello che stai facendo!

Il mio a Cinzia era un grazie così sincero e profondo che avrei avuto averla vicino per farmi consolare dal grande dolore che provavo e che tutt’oggi sento ricordando. Infatti non riesco più a scrivere.


CAMINO SCULTURA ROSSO IN BASSORILIEVO Visto che devo descrivere come artista una delle tante tecniche da me utilizzate e in questo momento sono con il computer sulle gambe davanti al mio camino, vi parlerò di quest’opera: quando ho acquistato la mia casa in cucina c’era un camino molto semplice, con un fondo di intonaco pitturato di bianco, con una bocca piccola, piccola. Ho sempre immaginato questa fonte di calore come un abbraccio che avvolge e protegge e l’unico colore che mi era più congeniale era il rosso. Dopo aver graffiato il fondo di intonaco con una raspa e un punteruolo ho posizionato delle tabelle di Airbeton (calcestruzzo cellulare o cemento cellulare, utilizzato per le coibentazioni delle case e per la prima volta nei paesi nordici, come pannelli di rivestimento) che si trova in commercio negli empori edili. Un materiale poroso e leggero che non va ad appesantire la struttura, è friabile nella lavorazione, infatti le sculture che realizzate alla chiesa sono state scolpite anche dai bambini tanto è morbido, ha lo stesso aspetto della pietra pomice. Dopo aver posizionato le tabelle con del collante da Airbeton, ho aspettato qualche giorno prima di iniziare a realizzare il bassorilievo, scavato con cacciaviti, coltelli o piccoli scalpelli, dopo aver sbozzato l’opera aspettando che la superficie sia completamente asciutta con delle apposite raspe o carta vetrata sono passata alla rifinitura. Vi raccomando!.......aspettate che la superficie sia completamente asciutta altrimenti impasterà rendendo inutilizzabile l’attrezzatura per la rifinitura. Dopo di che pennellate sul bassorilievo un prodotto impermeabilizzante all’acqua o bi-componente (prodotti da piscine) che chiuderà i pori e renderà idrorepellente la vostra opera all’umidità rendendola meno fragile, lasciate asciugare per qualche altro giorno e poi dipingete la superficie a vostro piacimento con colori acrilici per poi proteggerli con una mano di cera d’ambra o con una vernice trasparente acrilica a protezione del colore.L’effetto è straordinario e l’esecuzione è semplice! Buon lavoro

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